È difficile immaginare l’Antartide nella sua interezza. Solo possedendo un mappamondo si riesce a comprenderne bene la collocazione, perché è davvero un Mondo alla Fine del Mondo: una sorta di impercettibile vicinanza tra continenti – il Sud America, l’Africa e l’Oceania – che su una normale carta geografica appaiono distantissimi.
Abbiamo incontrato Omar Di Felice che ci ha parlato della sua incredibile esperienza in Antartide.
“È un luogo d’un’anomalia quasi inimmaginabile. Completamente bianco, irrealmente silenzioso – una specie di gigantesca camera completamente insonorizzata - e in cui, incredibilmente, il vento spira sempre al contrario rispetto al senso di marcia. I venti catabatici si formano in atmosfera e poi discendono fortissimi: dall’alto verso il basso. Persino il vento in Antartide è differente da come lo concepiamo nel resto del mondo. Non è a favore o contrario. È discensionale. Si è sempre in balìa di questo phon freddissimo e fortissimo, che ti strappa dalle mani qualsiasi cosa. Nel mio caso tutto ciò che avevo sulla slitta che trainavo con la fat bike era indispensabile, e veder trascinar via dal vento cose fondamentali – m’è capitato con la tenda, che fortunatamente, con un mezzo miracolo, sono riuscito a recuperare – rappresentava una seria ipoteca alla durata e all’esito ipotizzati dell’avventura”.
Per Omar Di Felice non essere riuscito a completare il tragitto previsto inizialmente per Antarctica Unlimited non è affatto un’angustia. Tutt’altro: è la conferma di ciò che Omar ha sempre pensato. Che la natura non è affatto dominabile dall’uomo.
“In Antartide la natura è la sovrana assoluta. Se i venti catabatici soffiano a 80 chilometri all’ora è inimmaginabile tentare di salire in sella e procedere sulla banchisa. Si rimane giorni e giorni in tenda in attesa che smettano di soffiare e quando questo accade, l’ipotetica tabella di marcia è infranta, per poi essere infranta un’altra volta quando torneranno ancora a soffiare. Se i venti riducono l’intensità, allora può accadere che si sia imprigionati dal White Out. Improvvisamente tutto si fa bianco e la visibilità si riduce a zero – così tanto che non si riesce neppure a scorgere il visore del cellulare – e, in quelle condizioni, si è del tutto disorientati. Fortunatamente il satellitare indicava la direzione, ma pedalare era impossibile perché non riuscivo a vedere nulla. Non riuscivo neppure a restare in equilibrio sulla bici. Era come spostarmi dentro a una nuvola senza fine.
Per spiegarmi un poco meglio: in Antartide non è come sullo Stelvio o su qualsiasi altro celebre valico. Per quanto brutte siano le condizioni atmosferiche, prima o poi il tempo migliorerà e sarà possibile ascenderlo. Al massimo si dovranno attendere due o tre giorni e poi, coprendosi con cura, si potrà andare.
In Antartide è drammaticamente diverso: si può rimanere fermi una o due settimane perché i venti catabatici continuano a spirare senza sosta. Si rimane immobili dentro a una tenda, senza sapere quando tutto quel soffiare terminerà.
Spesso m’è venuto da pensare ai primi esploratori polari, che con attrezzature e materiali di più di cento anni fa e senza la possibilità di comunicare affrontarono l’Antartide: Amundsen, Scott, Shackleton. Erano in completa balìa della natura, enormemente più di quanto possa essere stato io. Tuttavia, ora come allora è la natura che impera.
Alla fine, pur con il materiale e la strumentazione d’avanguardia che avevo con me, ho dovuto cederle e farmi recuperare vicino alle montagne di Thiels. Ogni altra decisione avrebbe messo a repentaglio sia la mia sicurezza, che quella di coloro che avrebbero dovuto prelevarmi. Ciò nonostante, sono felice. Sono rimasto in Antartide 51 giorni a diretto contatto con l’Incontenibile Natura. Non m’interessano i chilometri che ho percorso e neppure quelli che dovevo percorrere. Non m’interessa neppure di non aver raggiunto il Polo Sud geografico. Ho fatto esattamente tutto ciò che la natura m’ha permesso di fare.”
È inevitabile che l’interlocutore, a un certo punto dell’incontro, rivolga a Omar Di Felice la domanda fatidica: “Ma perché fai queste cose? Perché ti avventuri in queste imprese?”
“È stata un’illuminazione che m’è venuta ormai vent’anni fa. Mi sono reso conto allora che la bicicletta da corsa era limitata alle gare su strada: al Giro, al Tour, alle classiche che conosciamo tutti. Non aveva nulla di quella dimensione che oggi chiamiamo Ultracycling. Chi si cimentava con queste lunghe corse erano i cicloturisti del Nord Europa, che vedevamo in Italia in sandali e carichi di zaini pericolosamente in bilico sulla bicicletta. È stato in quel momento che mi sono chiesto: “E’ possibile che la bicicletta da corsa abbia solo una valenza agonistica e non possa averne altre?”. Proprio vent’anni fa ho cominciato a ragionare su questo - allora imponderabile - progetto che ci ha portato ora sul pack polare.
Ma, in realtà, non è neppure una questione di immaginare e mettere in pratica avventure e imprese. La verità è, piuttosto, che in Antartide la bicicletta è un mezzo di limitatissima utilità: il modo migliore per muoversi sono chiaramente gli sci; tuttavia, ciò che mi premeva dimostrare è che anche in Antartide questo oggetto meraviglioso può trovare una dimensione. Può arrivare sotto all’Everest, attraversare il Deserto del Gobi e, alla fine, anche al Polo Sud. Non è affatto il mezzo di trasporto migliore per quegli ambienti, ma ci può arrivare. Mi aspetto persino che, un giorno, un cosmonauta esca su qualche suolo ultraterreno a bordo d’una specie di fat bike e inizi a pedalare. È chiaro che non è uno strumento adatto per quel territorio, ma la bicicletta è un’invenzione talmente duttile e straordinaria che può arrivare ovunque.
Questo è il senso finale delle mie avventure. Portare questo oggetto dove nessuno si aspetterebbe, perché le sue possibilità sono inaspettate e, credo proprio, illimitate”.
È ancora inevitabile che sorga spontanea un’ulteriore questione: “E adesso, dopo l’Antartide, che tipo di avventure puoi immaginare?”
“Capisco che sia difficile pensare che dopo questi 50 giorni sulla banchisa antartica ci siano ancora limiti da esplorare. Eppure, è così. I prossimi mesi sarò in giro per l’Italia per incontrare studenti e appassionati per condividere la mia esperienza. E poi voglio testarmi ancora, approfondire ancora l’esplorazione delle mie possibilità.
Perché alla fine di Antarctica Unlimited posso dire di conoscermi un poco di più: di aver osservato dei miei limiti fisici e psicologici che non avevo ancora considerato. È proprio questo che desidero e sto già ponderando su quale ambiente cimentarmi ancora per approfondire ulteriormente la conoscenza di me stesso”.